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Introduzione

Conoscere un territorio significa averne vissuto i luoghi, averne visitato i monumenti – antichi o meno, non importa – ed averne esplorato la geografia, le colline, le montagne, i corsi d’acqua naturali ed artificiali. Significa averne osservato le pietre, i muri, i prati, le strade ferrate e quelle asfaltate, per non dire di quelle sterrate, ed i sentieri, i guadi, i ponti sui ruscelli. E per conoscere la Storia di quel territorio, occorre averla studiata sui libri, ed avere ascoltato le sue Storie dalla bocca delle sue genti. Conoscere un territorio implica un’immersione – non sporadica, ma ripetuta – nei suoi caratteri più meravigliosi (un panorama all’alba da una certa vetta, una nevicata notturna sulle luci della città, un millenario palazzo che custodisce mirabili tesori d’arte) così come in quelli che ci fanno indignare o che ci fanno provare repulsione (un’insensata colata di cemento laddove vi era quella collina cara agli avi, l’inquinamento di quella fabbrica, o in generale la distruzione per opera della Natura o per mano dell’uomo). Il bello ed il brutto, come sempre, sono i due lati dello stesso quadro. Entrambi degni di attenzione, entrambi (come tutti gli estremi) popolari e ben conosciuti, commentati, osannati e deprecati, a seconda dei gusti. Conoscere un territorio significa anche conoscere la storia del suo presente, fatta di bellezza e di bruttezza.

 

Si identifica sovente un territorio con un paesaggio, una veduta, uno scorcio. Lo sguardo che si posa su questo o quell’altro elemento dell’ambiente – sia esso naturale oppure dovuto all’uomo – è esso stesso esplorazione del territorio. Un registrazione continua, che parte dallo sguardo attraverso le tende della camera da letto e continua per tutto il giorno dal finestrino dell’auto, da dietro una vetrina, dal ciglio della strada contemplando la pianura, e verso la cima degli alberi, se distesi su un prato. Sempre, in ogni momento, ogni giorno. Tra il bello ed il brutto, tra la meraviglia e l’indignazione, c’è il mondo dell’ogni giorno. Che, parlando del nostro territorio (quel “lontano est italiano” secondo una felice sintesi), è popolato dalle forme e dagli oggetti che costituiscono lo spazio entro cui risiediamo, lavoriamo, viaggiamo, viviamo.

 

Ha scritto Silvano Bertossi a proposito della mostra “Italian Far East – il nuovo paesaggio, qui&ora” (Rive d’Arcano, 2014):

“Guidando l'auto lungo le strade, non sono le cascate, le foreste o i laghi e catturare la loro attenzione, ma i paracarri, la sterminata segnaletica e l'asfalto. “Non guardiamo pascoli e fiumi – dicono – ma cerchiamo un parcheggio del centro commerciale. Ci fermiamo ai semafori. I nostri cavalli moderni bevono alla stazione di servizio”. Ecco, dunque, un piazzale invaso dalle erba, una foresta ma solo se è preceduta da un campo di calcio deserto, le tettoie vuote di un parcheggio che coprono solo l'asfalto, un albero che con la sua chioma spettinata contrasta con le linee nette e diritte di una casa che sembra ripetersi all'infinito, oltre il bordo della foto. E ancora gli scheletri di ombrelloni che hanno perso la tela e sono rimasti lì, di fronte al mare invernale o grandi cartelloni pubblicitari rovesciati dal vento e che nessuno si è curato di rimettere in piedi, o ancora un grande manifesto che spunta dalla carta bianca che lo copre. La scritta dice “Il nuovo modo di vivere” ma non si legge quale sia questo modo”

Il “nuovo paesaggio” corrisponde alla nuova geografia del territorio, quel territorio che si può dire di conoscere solo quando, di esso, siano noti i caratteri della modifica che l’uomo ha operato sul paesaggio. All’interno di quel mondo compreso tra la bellezza e la bruttezza, ed escludendo gli estremi, poiché troppo rumorosi.

La lingua di questo paesaggio non è quella dei colori del cielo, dell'acqua e della terra, bensì delle forme e degli oggetti (case, auto, edifici) che l'uomo ha posizionato sul territorio, a volte creando una rottura con l'elemento naturale, a volte semplicemente per testimoniare la sua presenza, il suo passaggio, il suo essere colonizzatore; in ogni caso, interrompendo il filo che lega l'ambiente al determinato luogo geografico, e creando talvolta quei "non-luoghi" (spazi dell'anonimato, secondo la definizione di Marc Augé) ove le forme del globale vincono su quelle del locale.

 

Sono luoghi che parlano il linguaggio del presente, dove la mondializzazione e la perdita di identità geografica stanno per cancellare la memoria dei luoghi della natura e della tradizione, già oggi protetti e mostrati come merce rara. Ma la spersonalizzazione, la ripetitività, l’assenza di identità e di geografia, non rappresentano in quest’ottica elementi negativi, bensì descrittivi del territorio al tempo presente. Le forme iconiche dei Nuovi Luoghi Comuni (loghi, simboli, marche, materiali, architetture) diventano familiari: oggetti comuni che entrano subliminalmente a fa parte del proprio vissuto.

 

Conoscere un territorio significa anche confrontarlo con altri territori, per pesare le differenze e scorgere le analogie, quando vi siano. Confrontare il proprio territorio con uno geograficamente lontano come la California, l’Arizona ed il lontano Ovest nordamericano, durante diverse visite, mi ha rinnovato la curiosità della scoperta, dell’esplorazione, della conoscenza.

Là ho visto tutti i film, tutta la polvere, tutta la luce, gli anni di attesa, i luoghi immaginati e vissuti sui libri, sui cataloghi, i sogni ricorrenti del “lontano ovest americano”, dell'Altrove, del mito della Strada.

Ho visto gli orizzonti liberi e senza ostacoli, quelli sereni, senza limiti, e quelli abbacinanti e luminosi di una luce diversa. I cieli profondi e quelli rarefatti. Il deserto, quello vero, quello dei cespugli e dei serpenti, dove l’uomo sfreccia rapido, in cerca della prossima città, e quello della città stessa, quello creato dall’uomo dove la sabbia è ora cemento, quello che si vorrebbe attraversare rapidi ma che intrappola nel traffico, nell’asfalto, nello sconfinato serpente di cavalli d’acciaio.

 

E’ in questo West che ho cercato paesaggi diversi da quelli sempre vissuti, diversi in quanto lontani, ma non inattesi, bensì desiderati, evocati, finalmente veri. Paesaggi dell’uomo anche quando lontani dalla megalopoli, poiché ovunque l’uomo è arrivato. Paesaggi e luoghi abitati lontani dalle mille luci, vicini a quegli orizzonti senza confini, dove il sapore della frontiera, della libertà, della celluloide sbiadita, c’è ancora.

Luoghi che raccontano di tempi non molto lontani, eppure già sepolti dalla polvere, già intaccati dal Sole, dove gli oggetti dell’uomo sono silenziosi ma fieri testimoni della colonizzazione. Oggetti che raccontano il presente e che ci parlano di Bellezza anche quando derelitti, quando solitari, quando semplici e quotidiani. Comuni eppure straordinari.

 

Ha scritto Antonio Giusa a proposito della mostra “Nuovi Luoghi Comuni – dal territorio al non-luogo” (Udine, 2015):

“Giacomo Cattaruzzi è un flâneur della contemporaneità. Non viaggia a piedi nei viali e nei “passages” parigini come Baudelaire o Walter Benjamin, ma con la sua automobile sulle strade del Friuli, alla ricerca di “Nuovi luoghi comuni” […] Viene in mente il lavoro fotografico realizzato da Wim Wenders, in occasione della sua permanenza negli Stati Uniti per la realizzazione del film Paris, Texas, Palma d’oro a Cannes nel 1984. Quando guardo le fotografie di Cattaruzzi, ho nelle orecchie la colonna sonora di quel film scritta da Ry Cooder, e la sua chitarra. Vecchie roulottes, rimorchi di camion, scheletri di cartelloni pubblicitari, […] segni registrati dal Nuovo topografo friulano quando si muove in un territorio conosciuto, “a casa”, ma anche quando si trova ospite all’estero.

Cattaruzzi ama ripetere che il visitatore della mostra non deve attardarsi a cercare di riconoscere i luoghi da lui fotografati. In effetti le zone industriali o artigianali divenute luoghi deserti al tempo della crisi potrebbero trovarsi in molte parti d’Europa. Meglio assecondare, quindi, il desiderio dell’autore, senza preoccuparsi di identificare i luoghi di ripresa e senza storicizzare gli edifici o le aree urbanizzate, perdendosi negli anonimi parcheggi o nei centri commerciali.”

 

Dopo ogni ritorno presso il territorio natìo, pensando in particolare alla California, ho enumerato le differenze e sentito le diversità, anche se in esse ho trovato subito familiarità, poiché il paesaggio dell’oggi è dappertutto, ed i suoi confini non sono quelli degli uomini. Familiarità con gli oggetti iconici che finalmente si trovavano esattamente ove la mente immaginava, familiarità con il respirare l’aria di un luogo così lontano e così libero dalla pesantezza della memoria e della Storia.

Una familiarità inaspettata che mi ha permesso di fermarmi ad ammirare il colore, la luce, e di vedere le forme nude di quel grande Altrove, come se già le conoscessi da sempre, le avessi già toccate, vissute.

 

Ho così sfiorato una nuova Grande Bellezza, tratteggiata tra le vene d'asfalto del paesaggio, da ascoltare come in una canzone, da vivere proprio come in un libro, in un film, in un sogno lontano migliaia di miglia.

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