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Presentazione

di Antonio Giusa

 

Giacomo Cattaruzzi è un flaneur della contemporaneità. Non viaggia a piedi nei viali e nei “passages” parigini come Baudelaire o Walter Benjamin, ma con la sua automobile sulle strade del Friuli, alla ricerca di “Nuovi luoghi comuni”.

 

Quando smette il camice di scienziato al lavoro nel suo laboratorio, non desidera interpretare o dimostrare con la sua macchina fotografica nuove teorie sulle modificazioni del paesaggio. Si limita a registrare con maestria quanto vede il suo occhio attento.

Lo fa per diletto e quindi non ha la fretta di chi deve realizzare un reportage. Si concentra, studia l’inquadratura e aspetta la luce giusta. Trova anche il punto di vista che elimina passaggi di figure umane che potrebbero disturbare la sua fotografia.

 

Dopo anni di noiosi discorsi sull’identità friulana che non può essere unica, ma deve necessariamente essere declinata al plurale, finalmente uno sguardo che ci fa riflettere.

Allora cerchiamo di decostruire la visione di Cattaruzzi e di analizzarne i dettagli a cominciare dalle stazioni di servizio importanti per il nostro automobilista fotografo, non solo per i rifornimenti di carburante, ma anche per la loro serialità e la loro impersonalità.

Non a caso quando si vuole cercare un babbo ai fotografi statunitensi della New Topographics degli anni Settanta si evoca Edward Ruscha che nel 1962 pubblica il libro Twenty-six Gasoline Stations dove, come fa oggi Cattaruzzi, senza comunicare emozioni o giudizi, rende conto di un viaggio di 1500 miglia, durato sessanta ore.

Viene in mente anche il lavoro fotografico realizzato con un obiettivo di 35 millimetri da Wim Wenders, in occasione della sua permanenza negli Stati Uniti per la realizzazione del film Paris, Texas, Palma d’oro a Cannes nel 1984. Ho nelle orecchie la colonna sonora di quel film scritta da Ry Cooder e la sua chitarra quando guardo le fotografie di Cattaruzzi.

Vecchie roulottes, rimorchi di camion, scheletri di cartelloni pubblicitari. Segni registrati dal Nuovo topografo friulano quando si muove in un territorio conosciuto, “a casa”, ma anche quando si trova ospite all’estero, come nel caso di una vacanza in Grecia.

 

Cattaruzzi ama ripetere che il visitatore della mostra non deve attardarsi a cercare di riconoscere i luoghi da lui fotografati. In effetti le zone industriali o artigianali divenute luoghi deserti al tempo della crisi potrebbero trovarsi in molte parti d’Europa. Meglio assecondare, quindi, il desiderio dell’autore, senza preoccuparsi di identificare i luoghi di ripresa e senza storicizzare gli edifici o le aree urbanizzate, perdendosi negli anonimi parcheggi o nei centri commerciali.

 

Il viaggio di Cattaruzzi affronta anche il tema delle residenze che, a partire dagli anni sessanta, hanno sostituito le case rurali che predominavano nel paesaggio friulano. Villette a schiera che popolano le periferie urbane e la campagna, condomini che come alveari sono sorti anche nelle piccole città.

 

Cattaruzzi ha voluto definire i luoghi da lui fotografati come “comuni”. Si può leggere in questa definizione quello che è sintetizzato in un lemma del vocabolario: abusati, senza impronta personale e senza originalità. Ma il suo modo di fotografarli non è affatto banale.

Per questo mi auguro che la ricerca di Giacomo Cattaruzzi continui e che, come nelle sue intenzioni, approdi ad una conclusione.

 

 

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